Cassazione: Validità del rifiuto di sottoporsi a cure mediche da parte del paziente. Diritto di non farsi curare
Con la sentenza n. 23676 del 15 settembre 2008 la Corte di Cassazione ha stabilito che il rifiuto di sottoporsi a cure mediche è valido unicamente nel caso in cui il paziente lo abbia espresso dopo essere stato informato sui rischi che correrebbe non sottoponendosi al trattamento sanitario prospettato. Ma la sentenza va oltre: vi si afferma che deve essere “riconosciuto al paziente un vero e proprio diritto di non curarsi, anche se tale condotta lo esponga al rischio di morte”. I giudici spiegano che esiste la possibilità per il malato di firmare un “non consenso”, il quale, tuttavia, deve essere contenuto in una “articolata, puntuale, espressa dichiarazione dalla quale in maniera inequivocabile emerga la volontà di non ricevere determinate cure”. La sentenza dichiara, fra l’altro, la possibilità, per il paziente che non abbia con sé la sua dichiarazione di contrarietà a determinate pratiche mediche, di far valere la propria volontà attraverso la nomina di un “rappresentante ad acta”. La sentenza della Corte di Cassazione è stata eccitata dal ricorso presentato da un testimone di Geova contrario a ricevere trasfusioni di sangue in caso di pericolo di vita. I fatti. Nel gennaio del 1990 Il testimone di Geova era stato trasportato all’ospedale di Pordenone in stato di incoscienza nonché in pericolo di vita. I medici trovarono un cartellino, che il paziente portava seco, recitante le parole “Niente sangue”; cartellino che non veniva preso in considerazione essendo i camici bianchi convinti della necessità di un consenso “chiaro, attuale e informato”. Punto di visto, questo, che veniva adottato anche dalla Corte d’Appello di Trieste; nonché dalla Cassazione, come si evince dalla sentenza in commento. Torniamo al diritto di non curarsi: i supremi giudici affermano che questo è un principio “di indubbia rilevanza costituzionale, che emerge, fra l’altro, tanto dal codice di deontologia medica quanto dal documento del comitato nazionale per la bioetica del 1992”. In sostanza, dunque, si tratta di una sentenza che s’inserisce nel solco di un orientamento giurisprudenziale reso celebre dal caso Eluana Englaro.
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