La Corte di Cassazione fissa gli "estremi" del mobbing
In tema di mobbing la giurisprudenza ha adottato, fin dalla storica sentenza emessa dal Tribunale di Torino nel 1999 - sentenza che ha introdotto nel lessico giuridico italiano il termine mobbing -, un orientamento piuttosto compatto ma privo di caratterizzazioni forti. Poi, il 9 settembre scorso, la Cassazione, accogliendo con la sentenza 11 marzo – 9 settembre n. 22858/08 il ricorso di una donna che sosteneva di avere subito numerose vessazioni sul posto di lavoro, ha precisato gli estremi del mobbing, ribadendo che il esso è costituito da una condotta protratta nel tempo con l’obiettivo di danneggiare il dipendente. La sentenza, depositata in Cancelleria l’11 settembre scorso, è una sentenza chiave in quanto suo tramite sono fissati alcuni principi cardine in tema di mobbing. 1) Affinché l’illecito possa essere contestato sono sufficienti sei mesi di vessazioni. 2) “Ad escludere la responsabilità del datore di lavoro, quando il mobbing provenga da un dipendente posto in posizione di supremazia gerarchica rispetto alla vittima” non può bastare “un mero, tardivo intervento pacificatore, non seguito da concrete misure e da vigilanza ed anzi potenzialmente disarmato di fronte ad un’aperta violazione delle rassicurazioni date dal presunto ‘mobbizzante’”. Questo secondo punto è espressione della norma contenuta nell’art. 2087 del Codice Civile; norma che è posta a fondamento della fattispecie di mobbing nell’ordinamento giuridico italiano: “L’imprenditore è tenuto ad adottare nell’esercizio dell’impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l’integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”. Con la suindicata sentenza la Cassazione ha cassato la sentenza d’appello, che sostanzialmente confermava quella di primo grado con cui erano state rigettate le ragioni della ricorrente. La lavoratrice in questione per sei mesi era stata oggetto di una lunga serie di vessazioni da parte del suo capo, il quale ha, d’emblée, ordinato il suo trasferimento dalla sede di Torino a quella di La Spezia; poi ha revocato un progetto di rilevanza europea in precedenza commissionatole; infine, ha collocato la donna in una stanza senza finestre -riservata ai collabori esterni - privandola di una propria scrivania e di un proprio armadio. Tutto questo arricchito da “battute grossolane”.
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