Cassazione: possibile licenziare il dipendente che si fa timbrare il cartellino da un collega
Con la sentenza n. 26239 del 30 ottobre 2008 la Corte di Cassazione, sezione lavoro, ha confermato la legittimità del licenziamento di una donna, lavoratrice dipendente presso una clinica privata, la quale, d’accordo con un collega, si faceva timbrare il cartellino da quest’ultimo. Venuta a conoscenza del comportamento della donna, la clinica, in persona del legale rappresentante, la licenziava. Convinta di essere vittima di un licenziamento illegittimo, la donna ricorreva al giudice. Invano. La lavoratrice, allora, ricorreva in appello, ottenendo il medesimo risultato. I giudici della Suprema Corte, confermando la legittimità del licenziamento, affermano, nella sentenza in oggetto, che lo stesso è legittimo in quanto, in seguito al comportamento tenuto dalla lavoratrice, è venuto meno il rapporto fiduciario fra il datore di lavoro e la lavoratrice stessa. Quindi, giusta causa per il licenziamento risulta essere la falsa timbratura, mercé la quale ha luogo l’estinzione del vincolo fiduciario. Il Codice Civile, artt. 2104 e ss., disciplina il rapporto sussistente fra datore di lavoro e lavoratore dipendente. In particolare l’articolo 2105 – Obbligo di fedeltà – afferma che il “prestatore di lavoro non deve trattare affari, per conto proprio o di terzi, in concorrenza con l’imprenditore, né divulgare notizie attinenti all’organizzazione e ai metodi di produzione dell’impresa, o farne uso in modo da poter recare ad essa pregiudizio”. Il dovere di fedeltà assume in realtà un significato più ampio di quello espressamente attribuitogli dalla norma, andando ad abbracciare un esteso ventaglio di comportamenti. Infatti, il dovere di fedeltà si sostanzia nell’obbligo di tenere un comportamento leale nei confronti del datore di lavoro e di tutelarne gli interessi. Questo dovere, per tanto, ha natura accessoria, essendo diretta ed immediata conseguenza dell’assunzione dell’obbligazione principale di svolgere la propria attività lavorativa a favore dell’impresa. Quindi, lo si ribadisce, benché la norma preveda espressamente due soli doveri: il divieto di concorrenza e l’obbligo di riservatezza (entrambi negativi, cioè consistenti in un non fare), l’obbligo di fedeltà è implicitamente riferito ai più svariati comportamenti del lavoratore. L’articolo 106 c.c. stabilisce che “l’inosservanza delle disposizioni contenute nei due articoli precedenti può dar luogo all’applicazione di sanzioni disciplinari, secondo la gravità dell’infrazione.” Tali sanzioni sono disciplinate dalla legge n. 300 del 1970 (statuto dei lavoratori); fra esse v’è il licenziamento disciplinare: la sanzione più grave. Generalmente, affinché possa essere adottato il licenziamento disciplinare, si richiede sia soddisfatto il presupposto della sussistenza di una giusta causa. Cioè di un comportamento, di un fatto doloso del lavoratore che, in violazione degli obblighi contrattuali, provochi la rottura del rapporto fiduciario fra datore di lavoro e lavoratore stesso. In questo caso il licenziamento si configura come disciplinare; vedasi legge n. 604 del 1966 sui licenziamenti individuali e art. 7 legge n. 300 del 1970. Il datore di lavoro, quindi, osservate le norme esposte sopra, è legittimato a risolvere il contratto di lavoro con il lavoratore indisciplinato. Il che è esattamente ciò che è avvenuto nel caso di specie.
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