Furto Cassette di sicurezza

Cassazione Civile 2017: La Corte fa chiarezza in materia di responsabilità della Banca in caso di furto nelle Cassette di Sicurezza

Alla luce di quanto recentemente accaduto nella città di Parma, ove si è svolta una rapina durante la quale sono state aperte ottanta cassette di sicurezza, si ritiene utile ed interessante segnalare una recentissima sentenza della Corte di Cassazione. E' stato ivi statuito che, in casi come questo, se da un lato l’onere della prova riguardo al danno subito, grava sull’utente della cassetta di sicurezza (il c.d. "depositante"), dall’altro la prova può essere data tramite presunzioni semplici e prove testimoniali. Ciò comporta, in altri termini, la possibilità per il depositante di ottenere piuttosto facilmente, o comunque più facilmente di quanto creduto, il risaricimento del danno subito (furto in cassetta di sicurezza per rapina in banca o in altre circostanze). Di seguito, si pubblica il testo integrale della sentenza. Cassazione civile, sez. I, 27/07/2017, (ud. 16/03/2017, dep.27/07/2017), n. 18637 FATTI DI CAUSA 1.1. Con atto di citazione notificato il 20.9.1999, F.V. conveniva in giudizio avanti al Tribunale di Torre Annunziata la Banca di Credito Popolare s.c.a r.l. e, sul rilievo che nel corso della rapina avvenuta nell'ottobre del 1994 ignoti, raggiunto il caveau in cui erano allocate le cassette di sicurezza, avevano trafugato il contenuto costituito da gioielli e valuta della cassetta in uso ad essa attrice, chiedeva, in ciò ravvisando i presupposti di una responsabilità della banca, la condanna della medesima al risarcimento del conseguente danno stimato nella somma di Lire 981.000.000. 1.2. Rigettata la domanda dall'adito Tribunale, la vicenda era fatta oggetto di rinnovato esame avanti alla Corte d'Appello di Napoli che, accogliendo il gravame della F., riformava la contraria decisione di primo grado e condannava la banca, esperito al riguardo il giuramento estimatorio dell'appellante, al risarcimento del danno nella misura richiesta, maggiorandolo degli accessori di legge e delle spese di lite. Nell'occasione il giudice territoriale - dato previamente atto del giudicato interno formatosi riguardo alla sancita nullità da parte del primo giudice delle clausole limitative della responsabilità previste dal contratto, non avendo detta statuizione infatti formato oggetto di appello dalla banca neppure in via condizionata - ha ritenuto di censurare, nel solco della prova liberatoria richiesta dall, l'assunto risultante dalla decisione impugnata nella considerazione che "il giudizio circa le misure di sicurezza predisposte dalla banca non va formulato ex ante, ma proprio ex post e non avuto riguardo all'astratta idoneità dei sistemi di controllo, ma, nello specifico, a come questi abbiano in concreto operato, essendo l'istituto tenuto a garantire il risultato dell'integrità della cassetta". Riesaminando perciò in dettaglio le risultanze istruttorie acquisite nel corso del processo ed evidenziati i profili di colpa in capo all'ente creditizio ("i sistemi di allarme al momento dell'irruzione erano disattivati"; "la porta blindata del caveau (...) era sistematicamente lasciata aperta"; "era stato possibile agire esternamente sulla porta secondaria in maniera del tutto indisturbata"; "operare addirittura dall'interno dell'istituto", ecc.), nel contempo reputando non conducenti le modalità dell'evento ("con evidenza inidonee a giustificare il fortuito"), il giudicante ha concluso per ritenere "provata la responsabilità dell'istituto bancario" ed ha quindi proceduto a quantificare l'ammontare del danno in via presuntiva sulla base della "dettagliata denuncia delle cose che si trovavano all'interno della cassetta" sporta dalla parte nell'immediatezza del fatto, delle "deposizioni testimoniali raccolte" e, non ultimo, sulla base degli esiti del deferito giuramento estimatorio. 1.3. Avverso detta decisione ricorre ora a questa Corte la banca soccombente sulla base di sette motivi, ai quali resiste con controricorso e memoria ex art. 378 c.p.c. la parte intimata. Diritto RAGIONI DELLA DECISIONE 1.1. Con il primo motivo di ricorso - alla cui disamina, nel suo complesso, se non fanno pregiudizialmente scudo le sollevate eccezioni in ordine alla formulazione dei motivi di diritto, alla mancata esposizione dei fatti di causa e al difetto del requisito della autosufficienza, la prima, perché le censure risultano intelligibili, la seconda, perché l'eccezione è infondata (cfr. pagg. 24 del ricorso), la terza, perché l'eccezione è del tutto generica, risulta viceversa preclusiva la pure eccepita lacunosità dei motivi denuncianti ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l'omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, in quanto la loro illustrazione è con riguardo all'omissione lamentata priva di ogni esplicitazione argomentativa - la banca ricorrente addebita all'impugnata decisione la violazione e falsa applicazione per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, degli artt. 1229, 1218, 1322 e 1372 c.c. con riguardo alla clausola limitativa della responsabilità, censurandosi le conclusioni che il giudice d'appello aveva tratto dal rilevare il giudicato interno formatosi sul punto, vuoi perché nella specie "il Tribunale aveva correttamente ritenuto insussistente l'ipotesi di colpa grave o dolo della ricorrente, così allontanandosi anche per tale profilo dall'art. 1229 c.c." vuoi perché "la banca aveva implicitamente impugnato anche tale capo della sentenza del Tribunale". 1.2. Parimenti con il terzo motivo di ricorso la banca ricorrente deduce per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 1176,1839,1218 e 2697 c.c., risultando invero viziata l'affermazione del giudice d'appello secondo cui la banca non avrebbe fornito nella specie la prova del caso fortuito, giacché, a fronte degli obblighi assunti con la conclusione del contratto relativo alla cassetta di sicurezza e alla luce delle risultanze istruttorie emerse in corso di causa, segnalanti in particolare l'efferatezza del fatto criminoso, il decidente avrebbe dovuto trarre "l'inevitabile conseguenza dell'assenza di responsabilità della banca" in quanto "le indicate circostanze erano idonee a rappresentare il fatto eccezionale integrante il caso fortuito non prevedibile". 1.3. Entrambi i motivi - che possono essere esaminati congiuntamente in quanto intesi ad escludere la responsabilità della banca per difetto di colpa grave - si sottraggono al proposto scrutinio di legittimità e vanno perciò disattesi. 1.4. Secondo il modello di responsabilità delineato dall'art. 1839 c.c. la banca, che presta il servizio di cassette di sicurezza risponde dell'obbligazione di custodia ed idoneità dei locali e di integrità delle cassette assunto con la conclusione del contratto nei soli limiti in cui l'inadempimento della predetta obbligazione non sia imputabile al caso fortuito. Posto che per costante giurisprudenza di questa Corte non costituisce - sotto il profilo casistico suggerito dalla fattispecie - caso fortuito il furto, "in quanto è evento prevedibile in considerazione della natura della prestazione dedotta in contratto" (Cass. Sez. 1, 27/12/2011, n. 28835), l'accertamento della responsabilità della banca in caso di inadempimento va condotto alla stregua dagli ordinari canoni di giudizio che presiedono all'accertamento della responsabilità contrattuale, di modo che, applicandosi l'art. 1218 c.c. - che "è norma generale del regime processuale della responsabilità contrattuale, in forza della quale la regola della presunzione della responsabilità non trova motivo di essere derogata" (Cass., Sez. 3, 22/12/2011, n. 28314) - grava sulla banca "l'onere dimostrare che l'inadempimento dell'obbligazione di custodia è ascrivibile ad impossibilità della prestazione ad essa non imputabile, non essendo sufficiente ad escludere la colpa la prova generica della sua diligenza" (Cass., Sez. 1, 27/12/2011, n. 28835). Su questo terreno si innesta peraltro, come la prassi insegna ormai abitualmente, la normale previsione, in sede di predisposizione delle condizioni di contratto regolanti il servizio, di una clausola limitativa della responsabilità della banca nel caso in cui il valore delle cose immesse dal cliente nella cassetta di sicurezza ecceda un determinato limite. E' questa una norma pattizia che ricade, secondo quanto più volte ribadito da questa Corte (Cass., Sez. 3, 30/09/2009, n. 20948), sotto il vigore dell'art. 1229 c.c., comma 1, secondo cui "è nullo qualsiasi patto che escluda o limiti preventivamente la responsabilità del debitore per dolo o colpa grave". Ciò preclude alla banca di valersi della predetta limitazione di responsabilità laddove l'inadempimento dell'obbligazione di custodia sorta a suo carico sia dovuta a dolo o a colpa grave, ma non le impedisce di farsene scudo nell'ipotesi in cui, anche nel caso di furto, l'inadempimento sia cagionato da colpa lieve, fermo che anche in tale ipotesi, quando non sia invocabile il fortuito più generalmente liberatorio, l'accertamento della responsabilità gravante sulla banca segue le vie ordinarie e si rende quindi applicabile l'art. 1218 c.c. ovvero anche in tal caso "la questione della distribuzione dell'onere della prova non trova ragione di essere prospettata in termini diversi rispetto alla disciplina che regola l'inadempimento delle obbligazioni contrattuali" (Cass., Sez. 1, 5/04/2005, n. 7081), con l'ovvio corollario che è pur sempre onere della banca, che voglia opporre la clausola di esonero, nei limiti in cui ne residua l'opponibilità fuori dai casi di dolo o colpa grave, provare che nella specie l'inadempimento ad essa imputato sia dovuto solo a colpa lieve. 1.5.1. Ciò detto, viene naturale osservare nel solco di quanto appena premesso circa le obiezioni che la ricorrente muove alla sentenza impugnata, per aver ritenuto dirimente il giudicato formatosi in ordine alla nullità della clausola limitativa della responsabilità e per aver escluso la ricorrenza quale fattispecie liberatoria del caso fortuito, che nell'uno e nell'altro caso la questione posta attiene fondamentalmente ad un problema di valutazione della prove. Non è per vero disagevole, seguendo per un momento il filo delle considerazioni critiche sviluppate dalla ricorrente, ritenere, in relazione alla prima lagnanza, che il giudice d'appello, quand'anche avesse correttamente ravvisato l'esistenza del giudicato, avrebbe dovuto tuttavia valutare la pretesa dell'appellata alla stregua del metro giuridico della colpa lieve, onde nello scrutinare le risultanze probatorie scaturite dall'istruttoria processuale non avrebbe potuto esimersi dal considerare opponibile la clausola di esonero, le dette risultanze probatorie portando invero a concludere che l'inadempimento della banca fosse nella specie imputabile a colpa lieve; così come in relazione alla seconda, dove la critica al ragionamento probatorio compiuto dal giudice d'appello si fa più diretta, che il richiamo alle circostanze di fatto emerse nel corso del processo, se debitamente delibate, avrebbe dovuto condurre il decidente a declinare la richiesta declaratoria di responsabilità dell'ente creditizio essendo provato che il fatto era nella specie attribuibile alla fortuità del caso. 1.5.2. Ora, anche senza rammentare che sotto questo versante l'accertamento richiesto al giudice di merito deve esercitarsi in maniera coerente rispetto alla funzione tipica del contratto, che consiste nel mettere a disposizione una complessa struttura materiale, tecnica ed organizzativa idonea a realizzare condizioni di sicurezza che al cliente sono ordinariamente precluse nella sua sfera privata ed in ogni caso che all'esito di questo procedimento non è sufficiente ad escludere la colpa della banca "la prova generica della sua diligenza" (Cass., Sez. 1, 27/11/2011, n. 28835), il giudizio conclusivamente espresso nella sentenza impugnata allorché, accertando e dichiarando la responsabilità della banca, ha escluso sia che l'evento lamentato dall'appellata fosse fortuito sia, vieppiù, che la colpa della banca fosse lieve e che fosse perciò invocabile sul piano del tantudem risarcitorio la clausola di esonero, insiste segnatamente sugli aspetti fattuali della vicenda ed ha ad oggetto - come la Corte partenopea si dà cura di lumeggiare richiamandosi diffusamente alle risultanze del processo - un ampio ventaglio di circostanze incidenti sugli aspetti spazio-temporali dell'evento e sui profili della condotta che nei limiti delle censure qui sollevate non sono suscettibili di rimeditazione da parte di questa Corte non essendo essa giudice del fatto sostanziale e non potendo sostituire perciò il proprio giudizio a quello espresso dal giudice di merito. 2.1. Il secondo motivo di ricorso allega per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione dell'art. 1225 c.c. in cui il giudice d'appello sarebbe incorso poiché, pur qualificando la responsabilità della banca come contrattuale, ha tuttavia omesso "di contenere la condanna ai soli danni prevedibili, con ciò ponendosi in aperta violazione del disposto dell'art. 1225 c.c.". 2.2. Il motivo è infondato. 2.3. Come questa Corte ha già precisato il contratto previsto dall'art. 1839 c.c. è un contratto a prestazioni corrispettive con il quale la banca si obbliga, verso il pagamento di un canone, a mettere a disposizione del cliente locali idonei all'espletamento del servizio delle cassette di sicurezza ed a provvedere alla custodia degli stessi ed alla integrità della cassetta, a prescindere dalla natura e dal valore degli oggetti immessi dal cliente - il quale ha diritto di mantenerne segreto il contenuto - elementi questi ultimi che restano estranei alle obbligazioni contrattuali delle parti (Cass., Sez. U., 23/02/1995, 2067). In questa cornice, le prestazioni cui la banca è tenuta non subiscono in linea di principio variazioni in dipendenza del valore degli oggetti immessi nella cassetta e, poiché non è configurabile in capo al cliente una violazione del dovere di buona fede per il solo fatto che egli abbia omesso di informare la banca in ordine ai beni immessi e al loro valore, la prevedibilità dei danni cui la banca può essere chiamata a rispondere in caso di inadempimento va correlata unicamente alle obbligazioni da essa assunte con la conclusione del contratto, a nulla rilevando perciò il fatto che sia mancata una siffatta comunicazione da parte del cliente non essendo essa suscettibile, in quanto estranea all'oggetto del contratto, di circoscrivere l'obbligo risarcitorio della banca sotto il profilo della imprevedibilità del danno, ai sensi e per gli effetti dell'art. 1225 c.c.(Cass., Sez. 1, 29/07/2004, n. 14462). 2.4. Ciò posto, a diversa conclusione non è possibile pervenire neppure in presenza di una clausola che contempli la concessione dell'uso della cassetta per la custodia di cose di valore non eccedente un determinato ammontare, facendo carico al cliente di non inserirvi beni di valore complessivamente superiore, e che, correlativamente, neghi oltre detto ammontare la responsabilità della banca per la perdita dei beni medesimi, lasciando sul cliente gli effetti pregiudizievoli ulteriori, atteso che una clausola siffatta, ad onta del tenore, "integra un patto limitativo non dell'oggetto del contratto, ma del debito risarcitorio della banca, in quanto, a fronte dell'inadempimento di essa all'obbligo di tutelare il contenuto della cassetta (obbligo svincolato da quel valore, alla stregua della segretezza delle operazioni dell'utente), fissa un massimale all'entità del danno dovuto in dipendenza dell'inadempimento stesso" e ricade perciò nell'ambito previsionale dell'art. 1229 c.c., comma 1, (Cass., Sez. U., 1/07/1994, n. 6225), non diversamente, del resto, da ciò che si verifica in presenza di una clausola direttamente limitatrice della responsabilità del debitore per i casi di dolo o colpa, giacché in tal caso, operando essa sul piano della condotta e non su quello dell'evento, va infatti escluso che "tale clausola possa influire sulla limitazione quantitativa del danno risarcibile sotto il profilo della prevedibilità del danno stesso (art. 1225 c.c.)" (Cass., Sez. 3, 30/09/2009, n. 20948). 3.1. Con il quarto motivo di ricorso la banca ricorrente si duole per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, della violazione e falsa applicazione degli artt. 1839,2697,2727 e 2729 c.c. con riguardo alla prova dell'entità del danno, della violazione e falsa applicazione dell'art. 1839 c.c. e art. 115 c.p.c. con riguardo all'obbligo di segretezza ed al principio di non contestazione, vero, infatti, che sebbene fosse onere dell'utente provare il danno subito, nella specie "la resistente non ha assolto l'onere probatorio su di essa gravante", a nulla rilevando sotto il profilo della coerenza del procedimento presuntivo la dettagliata denuncia all'autorità di polizia ovvero le prove testimoniali assunte al riguardo, non provando l'una e le altre l'immissione nella cassetta di sicurezza dei gioielli sottratti al momento della rapina, così come parimenti privo di rilevanza doveva ritenersi il fatto che il preteso contenuto della cassetta di sicurezza non avesse formato oggetto di contestazione da parte di essa deducente atteso che la banca per la riservatezza del servizio, ignora e deve ignorare che cosa il cliente ripone nella cassetta. 3.2. Il motivo è infondato in relazione a ciascuno dei profili che ne sono oggetto. 3.3.1. Laddove la censura sviluppata in relazione alla decisività della prova presuntiva divisata dal giudice d'appello mette le sue radici nel denunciare un errore di diritto - giacché si è palesemente fuori da questo perimetro laddove la censura attiene alla concludenza in fatto degli elementi indiziari accolti dal giudice d'appello - la sua infondatezza discende de plano dal contrario opinamento di questa Corte secondo cui "nella prova del danno determinato dalla sottrazione dei beni depositati in cassetta di sicurezza, è ammissibile il ricorso a presunzioni semplici ed a prove testimoniali" (Cass., Sez. 3, 25/11/2008, n. 28067, in Giur. It., 2009, 10, 2190), risultando, anzi, esso doveroso - tanto da giustificare in caso di omissione non adeguatamente motivata la cassazione della relativa decisione - trattandosi di danni dei quali, come si notato nell'occasione, è estremamente difficile, se non impossibile fornire la prova storica. 3.3.2. Non coglie viceversa nel segno il rilievo riguardante la violazione del principio di non contestazione, atteso che il giudice d'appello ha modulato il proprio giudizio in proposito non già con riferimento all'attività probatoria cui sono chiamate le parti ed in relazione alla quale si renda applicabile l'art. 115 c.p.c. e risulti, se del caso, censurabile l'errata applicazione che di esso faccia il giudice di merito, ma nell'ambito della dinamica propria del giudizio presuntivo, osservando che le circostanze addotte dall'appellata in funzione della prova indiziaria del contenuto della cassetta non avevano trovato ex adverso alcuna replica atta a comprometterne la valenza probatoria e a precludere che la prova del fatto dedotto fosse così data a mezzo di un idoneo procedimento critico. 4.1. Il quinto motivo di ricorso denuncia per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e falsa applicazione dell'art. 2736 c.c., n. 2, artt. 2697,2727 e 2729 c.c. e dell'art. 241 c.p.c. con riguardo all'onere della prova e dell'art. 115 c.p.c.con riguardo al principio di non contestazione, avendo il giudice d'appello deferito, confondendo nella specie il giuramento suppletorio con il giuramento estimatorio, alla parte quest'ultimo, sebbene il diverso convincimento sul punto del giudice di prime cure non fosse "sindacabile" alla stregua delle regole in materia di onere della prova, non "esistesse" la semipiena prova richiesta al riguardo e fossero stati ritenuti erroneamente "esistenti" i presupposti per applicare l'art. 241 c.p.c., a nulla rilevando in contrario che la banca non avesse contestato il contenuto della perizia estimativa. 4.2. Il motivo è affetto da pregiudiziale inammissibilità in quanto inteso a sollecitare una rivisitazione delle circostanze di fatto in considerazioni delle quali il giudice territoriale ha ritenuto di deferire all'appellata il giuramento estimatorio. Per vero, premesso che come questa Corte ha nuovamente precisato di recente - ravvisandone l'esperibilità ai fini di determinare il tantundem risarcitorio proprio in relazione ad una controversia in cui in speculare coincidenza con il caso oggi in esame era in discussione, oltre al numero ed alla qualità, anche il valore dei gioielli custoditi all'interno di una cassetta di sicurezza e trafugati durante una rapina (Cass., Sez. 1, 15/03/2016, n. 5090) la deferibilità del giuramento estimatorio non può essere messa in dubbio quando - come qui e come ricorda il citato precedente - si tratta di "stabilire il valore di una cosa perduta o perita a causa dell'inadempimento di un'obbligazione strumentale alla sua conservazione", le obiezioni che la banca ricorrente muove con il motivo in disamina alla sentenza impugnata - in disparte dallo scambievole impiego di cui sono fatti oggetto nell'illustrazione del motivo gli istituti del giuramento suppletorio e del giuramento estimatorio - attengono alla sussistenza dei presupposti in base ai quali quest'ultimo può essere deferito, non potendo infatti, a giudizio della deducente, desumersi la prova del possesso dei beni e della presenza degli stessi nella cassetta di sicurezza al momento della rapina sulla base della perizia estimativa versata in atti e del fatto che sia mancata di essa ogni contestazione da parte sua. In questi termini però la sollevata censura, pur prospettando formalmente una violazione di legge, investe un profilo fattuale della vicenda, in quanto chiede che la concludenza degli elementi presuntivi, in guisa dei quali il giudice d'appello ha ritenuto raggiunta la prova in questione ed ha ritenuto di disporre sulla base di ciò, onde colmare il deficit probatorio risultante al riguardo, il mezzo istruttorio del giuramento estimatorio, sia fatta oggetto di un rinnovato apprezzamento da parte di questa Corte e che dunque la Corte procedendo in questo senso si sostituisca al giudice di merito nel riformulare il giudizio sul fatto sostanziale che solo a lui compete stilare e che non è prerogativa del giudizio di legittimità. 5.1. Con il sesto motivo di ricorso la banca, per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, lamenta la violazione e falsa applicazione degli artt. 1227 e 1224 c.c. riguardo al presunto maggior danno, nonché l'omesso esame della "(presunta) sottrazione di contanti in valuta estera" avendo il giudice d'appello proceduto alla liquidazione degli accessori del credito risarcitorio in ragione della ritenuta natura contrattuale della responsabilità della banca e della ritenuta natura di valore della relativa obbligazione e dunque dell'automatica rivalutazione della somma oggetto di condanna anche con riferimento al danno rappresentato dalla sottrazione di dollari pari ad Euro 8500,00, e ciò sebbene, costituendo quest'ultima un'obbligazione pecuniaria, la mera domanda di rivalutazione concernente anche quest'ultima "andava rigettata" non avendo l'attrice dedotto né tantomeno provato alcunché al riguardo. 5.2. Il motivo è infondato. Il credito risarcitorio da inadempimento contrattuale genera notoriamente un obbligazione di valore, sicché il giudice deve tener conto, anche di ufficio, della svalutazione monetaria verificatasi fino alla data della relativa decisione, perché l'integrale ed effettiva reintegrazione del patrimonio del danneggiato nella situazione del danneggiato in cui si sarebbe trovato se non si fosse verificato l'evento dannoso, alla quale il risarcimento è preordinato, può essere conseguita solo tenendo conto di tale svalutazione (Cass., Sez. 3, 27/06/2016, n. 13225; Cass., Sez. 1, 10/03/2010, n. 5843; Cass., Sez. 3, 01/12/2003, n. 18299). Rettamente perciò il giudice d'appello ha proceduto ad accordare la rivalutazione del credito scaturito in favore dell'appellata anche con riferimento al denaro sottratto, dovendo questo intendersi qui nella sua veste di bene giuridico e non di equivalente pecuniario. 6.1. Il settimo motivo di ricorso deduce per gli effetti dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e falsa applicazione degli artt. 91 e 92 c.p.c. in combinazione con l'art. 329 c.p.c., atteso che il giudice d'appello, condannando la deducente pure alla rifusione delle spese del giudizio di primo grado, avrebbe violato le norme richiamate in quanto il giudice di primo grado aveva disposto la compensazione delle spese di giudizio e "tale capo della sentenza non è stato fatto oggetto di impugnazione da parte dell'odierna resistente nel precedente grado di giudizio". 6.2. Il motivo è infondato. Va qui invero ribadito, a conferma della correttezza del deliberato d'appello anche in parte qua, il convincimento ancora di recente espresso da questa Corte giusta il quale "in materia di liquidazione delle spese giudiziali, il giudice d'appello, mentre nel caso di rigetto del gravame non può, in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, modificare la statuizione sulle spese processuali di primo grado, allorché riformi in tutto o in parte la sentenza impugnata, è tenuto a provvedere, anche d'ufficio, ad un nuovo regolamento di dette spese alla stregua dell'esito complessivo della lite, atteso che, in base al principio di cui all'art. 336 c.p.c., la riforma della sentenza del primo giudice determina la caducazione del capo della pronuncia che ha statuito sulle spese" (Cass., Sez. 6-3, 24/01/2017, n. 1775). 7. Il ricorso va dunque conclusivamente respinto. 8. Le spese seguono la soccombenza. Ricorrono le condizioni per l'applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater. PQM P.Q.M. Respinge il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida in Euro 10200,00, di cui Euro 200,00 per esborsi, oltre al 15% per spese generali ed accessori di legge. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1-quater, dichiara la sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso. Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della sezione prima civile, il 16 marzo 2017. Depositato in Cancelleria il 27 luglio 2017.

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