Spunti sulla legislazione cinese in materia di tutela dei lavoratori e implicazioni per le imprese straniere
Delocalizzare in Cina è stata, è, e continua ad essere una parola d’ordine per le imprese occidentali. Comparto tessile e arredamento hanno aperto la strada; oggi, ormai, una qualsiasi azienda può trarre, com’è noto, grandi benefici dalla penetrazione nel mercato cinese. Sia che essa avvenga dall’alto – distribuzione – sia che avvenga dal basso – produzione. Una delle forme giuridiche cui più frequentemente ricorrono le imprese occidentali che sbarcano in Cina è quella della Joint Venture. Ovvero: un accordo di collaborazione con cui due o più imprese (ciascuna delle quali mantiene la propria indipendenza giuridica) decidono di collaborare per la realizzazione di un progetto comune di natura produttiva o commerciale da realizzarsi mediante l’utilizzo sinergico delle risorse apportate da ciascuna delle imprese partecipanti. Caratteristica di rilievo: la JV prevede un’equa suddivisione dei rischi legati all’investimento comune. Rischi che, soprattutto in un Paese emergente come la Cina, non sono naturalmente da sottovalutare; devono essere considerati, ma sempre in relazione alle grandi opportunità ricavabili. Fra le variabili più delicate del mondo della produzione cinese, sono state rilevate: l’assenza di certezze assolute sulla eterna fedeltà dei dipendenti dell’impresa, sulla determinazione infallibile dei tempi necessari per l’acquisto di un terreno o l’ottenimento di una concessione, sul rispetto puntuale di contratti scritti (in Cina prevale una cultura giuridica diffidente nei confronti della legge scritta), sulla stabilità dei livelli d’inquinamento, sulla facilità d’applicazione della nuova legge sul diritto del lavoro in vigore dal 1° gennaio 2008, etc. Le imprese italiane stanno sbarcando in Cina: in ritardo e più lentamente di quelle di altri Paesi europei, ma stanno sbarcando. Secondo un censimento dell’Osservatorio Asia su dati della Camera di Commercio italiana in Cina le imprese italiane operanti in Cina sono poco più di 1.400, il cui zoccolo duro è costituito da sole 300 imprese. La ragione del ritardo è giustificata dall’alto tasso di diffidenza degli imprenditori italiani, nonché da reali difficoltà linguistiche che, evidentemente, anche altri Paesi hanno ma in misura minore, si pensi a Germania e Regno Unito. L’emergenza attuale, per ritornare al nocciolo della questione, prende il nome di “costo del lavoro”, appunto. L‘introduzione di una disciplina giuridica dei rapporti di lavoro, unita alla nascita e allo sviluppo di una cultura sindacale, avranno senza dubbio un impatto sul nascente mercato del lavoro cinese, nonché sugli equilibri economici e sociali nazionali. Di che portata sarà tale impatto sembra per il momento di difficile preconizzazione. Tuttavia, l’attuazione completa e definitiva della nuova legislazione sul funzionamento del mercato del lavoro sarà quasi certamente lunga e travagliata, come si è intuito in seguito all’acceso dibattito generato dall’emanazione, il maggio scorso, della bozza del regolamento di attuazione. Ad opporsi alla riforma, soprattutto le multinazionali americane. Ciononostante, la riforma dei rapporti di lavoro è percepita dal governo cinese come un’azione ormai inevitabile. La tutela del lavoratore e la determinazione di principi, regole e modalità nella creazione, nello svolgimento e nella estinzione dei rapporti di lavoro appaiono come esigenze dal contenuto non procrastinabile. Inoltre, la riforma porterà alla nascita di un mercato del lavoro vero e proprio, ove domanda e offerta si possano incontrare liberamente. Il che in Cina, ad oggi, non si è mai visto. Maggior tutela del lavoratore significa, com’è noto, costi maggiori per le imprese. Significa anche libertà sindacale, e quindi pruriti per gli imprenditori che hanno sempre tratto enormi vantaggi proprio dalla assenza, in Cina, di una disciplina concreta sui diritti dei lavoratori.
© 2008 Studio Legale Carattini, Avvocati in Parma